Possiamo essere liberi, o siamo sempre condizionati dagli altri, soprattutto se loro hanno potere e autorità?
In Giappone si dà grande importanza alle gerarchie.
Ricordo un episodio di quando ho iniziato a lavorare, circa diciassette anni fa.
Non avevo esperienza e l’unica regola che avevo in mente era quella di eseguire correttamente qualunque ordine mi desse un mio superiore.
Una volta mi è stato chiesto di tradurre una lettera di richiamo piuttosto dura nei confronti di una collega che era assente da diverso tempo. Non si trattava di una sconosciuta, ma di una cara amica.
L’automatismo dell’obbedienza al capo mi ha portato ad eseguire l’ordine, tradurre la lettera e spedirla.
Punto.
Mi era anche stato detto di non farne assolutamente parola con lei.
Per diversi anni mi sono chiesta perché lei si fosse raffreddata nei miei confronti, poi un giorno mi ha spiegato: si era sentita tradita, perché aveva immaginato che fossi stata io a tradurre la lettera, e mi aveva considerato come una complice, e avrebbe gradito che io magari la avvertissi telefonicamente e le stessi vicino.
Ripenso spesso a quello che di sicuro oggi considero un mio errore.
Quello di non aver messo in discussione neanche per un attimo la decisione del capo, non aver provato a mettere una buona parola, non aver avvisato la collega che era in arrivo una lettera con un contenuto spiacevole per lei.
Oggi quello che vedo in tutta questa vicenda è che da parte mia c’era stato poco amore. Ma a spingermi a commettere quell’errore, era stato solo l’automatismo nell’obbedire a un superiore, o c’era dell’altro?
Il bisogno di piacere all’Autorità
Per esempio il mio bisogno, essendo anche agli esordi della mia carriera lavorativa, di fare bella figura e di farmi accettare?
E questo mi fa riflettere, oltre all’automatismo, su un altro aspetto presente nella nostra sottomissione a quella che consideriamo una fonte autorevole: il bisogno di essere approvati e accettati.
Non sempre è l’automatismo a spingerci a non mettere in discussione l’autorità, ma la nostra paura.
La paura di perdere qualcosa di cui pensiamo di aver bisogno.
L’automatismo per esempio lo vedo tutte le mattine nella maggior parte dei colleghi. Se vedono che sta entrando l’Ambasciatore, si precipitano a tenergli aperta la porta.
Lì non c’è calcolo, nessuno di noi, a parte la segretaria dell’ambasciatore, ha molti rapporti lavorativi con lui, che tra l’altro non influenza in alcun modo neanche gli aumenti salariali o le valutazioni dei dipendenti.
Ma rappresenta “l’Autorità” per eccellenza.
Recentemente mi è capitato di entrare insieme a lui e ho fatto una prova.
L’ho salutato cordialmente come avrei salutato qualunque altro funzionario o collega, gli ho aperto la porta senza tenerla spalancata come fanno altri colleghi, e non mi sono fatta problemi a entrare per prima a un suo cenno, senza ulteriori convenevoli.
E lì ho avuto conferma che dipende soltanto da noi invertire la rotta di certi automatismi.
Che cos’è l’autorità?
Semplicemente una persona, esattamente come noi, che semplicemente nel suo percorso lavorativo occupa un posto di rilievo nella gerarchia sociale.
Una persona come me, come te, che merita il rispetto come lo meritiamo te, io e la signora che fa le pulizie.
Perché spalancare la porta a lui e fare mille inchini, e magari neanche accorgerci della collega che fa le pulizie? O dell’operaio che sta facendo dei lavori?
Noi siamo sempre liberi di fare o non fare una cosa.
Ma usiamo il nostro potenziale di libertà solo nel momento in cui riusciamo a riconoscere gli automatismi che spesso stanno dietro a tanti nostri pensieri e comportamenti e prendiamo davvero coscienza della nostra libertà.
Essere liberi come l’elefante
Capendo anche che cos’è che esattamente temiamo nel contravvenire a delle etichette sociali. Mi ha sempre colpito, a questo proposito, la storia dell’elefante e della cordicella.
Sembra che gli elefanti da piccoli vengano legati a un palo con una cordicella sottile, che, essendo loro ancora cuccioli, è più che sufficiente per tenerli in cattività.
L’elefantino si abitua all’idea che ogni volta che cerca di scappare e liberarsi, il suo tentativo è vano perché legato a una corda.
La cosa incredibile è che anche da adulto l’elefante rimarrà legato alla stessa cordicella, assolutamente insufficiente a trattenerlo.
Con la sua forza ormai potrebbe spezzare in un attimo una corda così sottile, ma a trattenerlo sono i ricordi di tutte le volte in cui, da piccolo, non ha potuto liberarsi, e questo ha creato in lui l’automatismo di sentirsi prigioniero, anche adesso che potrebbe in un attimo liberarsi.
Devo dire che la prima volta che ho letto questa storia ho provato una grande tristezza. Quante volte anche noi siamo come quell’elefante?
E’ tutto nella nostra mente, spesso pensiamo di non essere liberi, di dover obbedire a delle regole, di dover assecondare i nostri superiori anche quando non vorremmo, ci sentiamo imprigionati in un sistema da cui ci sentiamo soffocare.
Ma la verità è che noi siamo sempre liberi, così come è libero l’elefante adulto del racconto.
Semplicemente dobbiamo imparare a liberarci dei nostri falsi bisogni, che rappresentano la corda immaginaria con cui ci teniamo legati da soli.
- Non siamo forse liberi di rifiutare un pranzo?
- Non siamo liberi di esprimere dissenso a un nostro superiore?
- Contraddire un genitore?
Lo siamo.
Nessuno ce lo impedisce.
Ma temiamo le conseguenze.
Perché pensiamo di non saperle gestire, pensiamo di aver bisogno dell’approvazione del superiore, del genitore, pensiamo che senza quella staremo male e avremo dei problemi.
Un esercizio che trovo molto utile per sviluppare spirito critico e “Come fai a saperlo?”
Quante volte diamo per scontato che affermazioni fatte da fonti autorevoli o da persone che abbiamo etichettato come “competenti” siano necessariamente corrette, le prendiamo per oro colato senza cercare di metterle minimamente in discussione?
C’è un proverbio in dialetto siciliano, “fatt’a nomina e cucchiti” (fatti una buona reputazione, poi vai pure a coricarti) Vale ovviamente anche per una cattiva reputazione.
Mettere in dubbio, in discussione, è scomodo e richiede tempo ed energie.
Più veloce etichettare e togliersi il pensiero!!
Ma a quanti errori ci esponiamo, per la nostra pigrizia mentale?
E se cercassimo invece, ogni volta, di chiederci e di chiedere “Come fai a sapere che sia vero? È l’unico modo per fare questa cosa? Esiste solo questa versione dei fatti?”
Se non vuoi chiederlo direttamente al diretto interessato, intanto allenati a farlo nella tua mente. E’ un primo importante passo per evitare di cadere vittima di pericolosi automatismi e imparare a valutare con la tua testa.
Abituati nello stesso tempo anche a esprimere ugualmente la tua opinione anche e soprattutto quando temi che gli altri potrebbero disapprovare e anche quando si tratti di un tuo superiore o una persona di cui hai solitamente soggezione.
Con gentilezza e rispetto, sempre 😉
Inizierai così facendo ad acquistare sempre più sicurezza in te stesso, o te stessa, e a sperimentare in prima persona che l’approvazione degli altri non è poi quel premio indispensabile senza il quale non puoi stare bene.
Anche questo è un esercizio, della Scuola di Indipendenza Emotiva e si chiama “Dico quel che penso” 🙂